Copyright © 2000-2018 • AIRC tutti i diritti riservati • Privacy • Cookie • Termini d'uso • Disclaimer • Credits
Nato alla fine degli anni Ottanta negli Stati Uniti per la diagnosi del melanoma metastatico, il linfonodo sentinella è rapidamente diventato uno strumento importante per la riduzione dell’impatto della chirurgia in diversi tumori, primo fra tutti quello della mammella.
Scoprire se i linfonodi vicino alla zona malata sono stati invasi da cellule maligne consente, infatti, di calibrare l’estensione dell’intervento e di decidere se togliere i linfonodi stessi o meno. La tecnica è stata introdotta in Europa da Umberto Veronesi, che l’ha resa più precisa utilizzando, al posto del colorante blu impiegato dagli americani, un tracciante radioattivo. I risultati del suo lavoro, che hanno coinvolto più di 500 donne colpite da cancro del seno, sono stati pubblicati nel 2003 dalla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine e hanno reso la tecnica del linfonodo sentinella un’operazione di routine.
Ma gli studi di Veronesi non si sono fermati lì. In anni recenti infatti il suo gruppo di ricerca ha dimostrato che se nel linfonodo si trovano solo micrometastasi (cioè singole cellule sfuggite al tumore primario) è meglio non rimuoverlo, perché migliora la risposta immunitaria al tumore e quindi aiuta a prevenire le ricadute. Questa tecnica ha ridotto anche alcuni effetti collaterali legati alla chirurgia invasiva del tumore al seno che veniva praticata fino ad allora. Infatti l’asportazione di tutti i linfonodi del cavo ascellare provocava un ristagno di liquidi nel braccio, noto col nome di linfedema, che poteva arrivare anche a comprometterne la mobilità. La ricerca oggi sta cercando metodi alternativi, per esempio combinando l’ecografia e la risonanza magnetica del cavo ascellare, in modo da evitare del tutto il ricorso al bisturi.
se questo articolo ti è piaciuto,
sostieni la ricerca!